Negli ultimi cinque anni abbiamo urbanizzato una quantità di suolo che, sotto il profilo dell’inquinamento ambientale, corrisponde all’inserimento di quattro milioni di nuove automobili in Italia
Non possiamo voler bene alla terra se i nostri suoli non sono in grado di produrre nutrimento per l’uomo e per la natura. In Italia ogni anno si perdono terreni agricoli per la costruzione di aree residenziali, impianti industriali, opere infrastrutturali, ma anche semplicemente in seguito all’abbandono delle aree coltivate dovuto allo spopolamento delle aree montane.
Il disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo e sul riuso del suolo edificato, approvato alla Camera lo scorso maggio e ora in discussione al Senato, segna una presa di coscienza anche da parte della politica nazionale.
Eppure, l’idea che il suolo sia un bene comune da tutelare stenta tuttora ad affermarsi. Il perché lo spiega alla platea di Terra Madre Salone del Gusto il deputato Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura e relatore del primo disegno di legge governativo sul consumo del suolo presentato durante il governo Monti: «Ci sono resistenze fortissime, provenienti da un lato dal mondo della filiera edilizia, dall’altro da quello che definisco il “partito degli amministratori locali”. Spesso gli enti locali sono spinti a fare cassa con gli oneri di urbanizzazione, trattando il suolo soltanto come una superficie da occupare».
I dati elencati sono impressionanti: su una superficie nazionale di 30 milioni di ettari, ancora negli anni Sessanta 18 milioni erano adibiti a usi agricoli. Oggi siamo scesi a 12,5 milioni. Dove sono andati i 5 milioni e mezzo perduti? «In gran parte – risponde Catania – si tratta di terreni agricoli nelle aree marginali che sono stati abbandonati e riguadagnati al bosco. Ma quasi un milione e mezzo sono stati cementificati».
Sul piatto non c’è solo l’arresto del consumo di suolo, ma il recupero, dovunque possibile, delle aree già sfruttate. Perché il fenomeno, sottolinea il parlamentare, pone una grave ipoteca sul futuro: «L’Italia produce all’incirca i tre quarti del suo attuale consumo alimentare. Se non si fa qualcosa urgentemente si rende strutturale la perdita del 25% della produzione: questo è un crimine nei confronti delle prossime generazioni. Pensiamo a cosa potrebbe succedere se, in seguito a crisi climatiche e conflitti, il commercio internazionale non fosse più in grado di garantire l’attuale disponibilità di derrate».
La grande sfida dei prossimi cinquant’anni, conclude Catania, dovrebbe quindi essere la ricostruzione del Paese non attraverso il consumo di nuovi suoli, ma con il recupero e il risanamento delle aree già costruite. Un processo che può coinvolgere a pieno titolo l’edilizia.
Laura Puppato, relatrice dell’attuale ddl in Senato, chiarisce che l’obiettivo del provvedimento è «un indietro tutta sul consumo di suolo». La senatrice denuncia il fenomeno come un’autentica emergenza: «Siamo a un punto di non ritorno. L’Istat calcola in 61 miliardi i costi che il nostro Paese deve subire per far fronte al dissesto idrogeologico. E c’è una chiara sovrapposizione, a livello regionale, tra il crescere dei danni e quello del consumo di suolo».
Il quadro generale, peraltro, mostra un’espansione edilizia del tutto scollegata dalle reali necessità della popolazione: «Su 31 milioni di abitazioni censite, senza considerare quindi gli abusi che in alcune regioni arrivano a quasi il 50% del costruito, ben tre milioni e mezzo sono costituite da case vuote. A queste vanno aggiunti gli edifici industriali dismessi e degradati».
Nemmeno la crisi economica, aggiunge Puppato, ha fermato la grande colata: «Negli ultimi cinque anni abbiamo urbanizzato una quantità di suolo che, sotto il profilo dell’inquinamento ambientale, corrisponde all’inserimento di quattro milioni di nuove automobili in Italia».
Oltre all’aspetto agricolo-alimentare e a quello legato alla prevenzione del dissesto idrogeologico, infatti, si devono considerare le conseguenze ambientali e paesaggistiche del consumo di suolo. Per questo il recupero dei terreni in campagna va affiancato alla valorizzazione del verde urbano: «Un solo ettaro di terra con 150 alberi piantumati – ricorda Puppato – può portare alla riduzione di 30 tonnellate di anidride carbonica in un anno».
Se l’Italia si sta finalmente muovendo, anche l’Europa cerca di andare oltre le enunciazioni di principio. Oggi esiste una strategia tematica che pone l’obiettivo del “consumo zero” entro il 2050, ma manca una vera direttiva quadro a livello comunitario.
Per arrivarci, Slow Food è firmataria, con altre 300 organizzazioni, della campagna People4Soil, presentata a Terra Madre Salone del Gusto da Carlo Petrini. L’obiettivo è raccogliere un milione di firme in un anno per avviare un’iniziativa dei cittadini europei (ICE) che verrà esaminata dalla Commissione Ue.
Un’iniziativa preziosa, commenta Mario Catania: «Riuscire a costruire un quadro europeo solido è la strada migliore da percorrere, a prescindere da quello che si può fare nel frattempo in chiave nazionale. Per questo sostengo in pieno l’iniziativa di Slow Food che anche questa volta si muove con la giusta filosofia».
Anche Laura Puppato saluta con favore l’avvio della campagna, ricordando inoltre una questione indifferibile legata al land grabbing: «Un passaggio delicatissimo riguarda la necessità che la finanza non possa più produrre futures sulle derrate alimentari. L’Europa dovrà affrontarlo, perché ne va del futuro dei nostri territori».